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giovedì 26 marzo 2015

PRESIDE : LEADER O KAPO'?

 La scuola     https://youtu.be/n6mBSye6dfs 

Anno 2000  MONTECCHIO
http://donataalbiero.blogspot.it/2014/04/ti-voglio-cantare-cara-scuola-manzoni.html 



Anno 2012 ARZIGNANO 
http://donataalbiero.blogspot.it/2014/12/una-scuola-arzignanese-nel-mito-di.html

 E’ guerra mediatica sui social network. 
Ci si scatena, tutti contro tutti; motivo di contesa è la  figura del preside- padrone o del preside- comandante, che dir si voglia, quale apparirebbe nel Ddl da discutere in Parlamento per la realizzazione della cosiddetta ‘buona scuola’.  Nello specifico, l’argomento in discussione è la chiamata diretta dei docenti da parte dei dirigenti scolastici, liberi di attingere da “albi territoriali” senza i vincoli imposti dalle graduatorie di merito.

Sono stata in silenzio per settimane, ho letto commenti vari, pro e contro, ho riflettuto, in base alla mia professionalità, spesa sul campo.  
Temo che la chiamata diretta dei docenti sia  un punto  ‘pericoloso’ per il futuro della  scuola  (F. Imposimato, membro della Suprema Corte di
Cassazione di cui è presidente onorario, avverte sul rischio di incostituzionalità e appellandosi al presidente della Repubblica definisce l’albo regionale dei docenti una lista di proscrizione).

Parlo, con cognizione di causa. 

Mi qualifico: sono stata nominata capo di istituto, dopo aver superato un concorso ordinario nazionale, nel 1981. Direttrice didattica /preside fino al 2000, a seguito della legge sulla autonomia scolastica (L 59/97, DPR 275/99) e della attribuzione della
della qualifica dirigenziale (Dlgs 59/98) con  corso di formazione obbligatorio, sono diventata dirigente scolastica nel 2000 : 31 anni alla guida di scuole sempre più complesse, dal 2 circolo didattico di Arzignano, al 1 circolo didattico di Montecchio Maggiore, alla scuola media Giuriolo di Arzignano con un ctp annesso, negli ultimi 10 anni di attività, conclusi nel 2012.

 Ho esercitato il mio ruolo con fatica e passione, senza piegarmi mai ai vari politici di turno, avendo solo a cuore l'istituzione pubblica che con orgoglio rappresentavo; spesso imbrigliata nelle vischiosità della normativa, senza poter scegliere (tranne negli ultimi anni), direttamente i miei collaboratori; senza avere concreti strumenti di 'potere' per  'punire' i casi eclatanti (pochi) di operatori negletti e incapaci; dovendo mediare, talvolta fino all'esasperazione, ogni modalità organizzativa della scuola con i sindacati provinciali, meno con la RSU interna; senza che fosse previsto 
l' aggiornamento obbligatorio del personale anche se lo auspicavo, certamente mal pagata rispetto alle responsabilità che hanno gli altri  dirigenti della pubblica amministrazione,  a volte con uffici di poche persone e con meno mole di lavoro   

Per la mia storia professionale, non accetto perciò il qualunquismo, i giudizi irrispettosi espressi nei confronti dei rappresentanti della mia categoria professionale, l’accanimento contro una professione spesso esercitata in assenza di strutture, risorse, certezza del diritto  che punta a riconoscere la scuola come servizio per gli alunni. 
 
Tuttavia, sono perplessa sulla chiamata diretta dei docenti da parte del dirigente.
Perché attribuire a quest’ultimo la facoltà di ignorare  una graduatoria pubblica fondata su vari esami e su  una pluralità di titoli?
Con quali competenze  un preside può valutare i docenti di qualunque materia prima ancora di averli messo alla prova?
Che ne è  dell’art. 97 della Costituzione (“nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso”)?

Quando  si vagheggiò  la chiamata diretta , più di dieci anni fa,  dal  sindacato in cui ero iscritta,  l’ANP,  avanzai anche allora dei dubbi  
Temevo allora –e temo di più oggi-  che la scuola laica e  pluralista in cui mi identificavo non potesse essere garantita tramite il placet  solo del  Dirigente Scolastico, che magari avrebbe potuto mettere in discussione la provenienza geografica, il credo religioso,
l'appartenenza politica, le convinzioni culturali o le abitudini sessuali del singolo docente; volevo, questo sì, che fossero certificati  esternamente, il sapere degli studenti, il saper fare, il saper essere dei docenti e della sottoscritta,  quale dirigente; volevo, questo sì, scegliermi direttamente all’interno dell’istituto, senza contrattare con il sindacato, i collaboratori.
 

Ma non ho mai messo in dubbio il diritto di ogni docente, avente titolo, di scegliere, in base a graduatorie trasparenti, la scuola in cui operare e in cui continuare la sua attività.

I miei timori di allora, sono oggi tutti confermati,  semmai ingigantiti, vista la situazione reale del  Paese. 
La chiamata diretta prefigura, purtroppo, più di quanto i miei colleghi pensino,  nelle scuole il regno dell'arbitrio, delle preclusioni ideologiche, del favoritismo,
forse anche del ricatto (c’è in palio un posto di lavoro statale).

Quali “chiamate” farà un preside 'politicamente' di sinistra, di destra, di centro?                
"Non correremo il rischio di avere scuole sempre più orientate ideologicamente,
 assunzione dopo assunzione, ad immagine del Dirigente? Chi fermerà il nepotismo e il clientelismo?  Quale libertà di valutazione o d’insegnamento, garantita dall’art. 33 della Costituzione, potrà avere un docente per forza di cose “riconoscente” al suo immediato superiore?”
(Gianfranco Mosconi)
                                                                          
                                 
 Sarebbe questa la buona scuola in cui opera il bravo dirigente?    
No, decisamente no. 


Dirigere per me è il tentativo quotidiano  di "presidiare", insieme a chi ha a cuore una reale esperienza educativa (docenti, famiglie, operatori) spazi di progettualità, di proposta, di  libertà di insegnamento.




 E dunque, “coordinando” e “valorizzando” le risorse
umane, “rispettando” le competenze degli organi collegiali, facendoli ben
funzionare, puntando al “benessere organizzativo”, prestando attenzione  alla comunicazione, curando la qualità dei processi formativi, misurandosi  con diritti riconosciuti in Costituzione, tanto del personale docente quanto dell’utenza, coinvolgendo  l’organizzazione verso gli obiettivi da raggiungere.  
 SCUOLA AMICA https://youtu.be/zNy--DWa-mQ  

Ho dovuto  imparare sulla mia  pelle, il ruolo di “capo”.
 
 Per dare “senso” al lavoro scolastico  che svolgevo ho cercato per anni,  quotidianamente,  di  costruire la mia  leadership, non il potere.
(Ve la ricordate la canzone IN FILA PER TRE?"  L'ho messa in modo scherzoso nel commento sulla festa di addio ai bravi professionisti della mia scuola   https://youtu.be/NB4fGCHHvIo)
Il dirigente non è un manager e la scuola non è una azienda.            Leader non si nasce , si diventa. 
Nella verticalizzazione delle strutture  dello Stato si  sta proponendo  una gestione gerarchica  della scuola che nega i presupposti fondanti della democrazia sanciti dalla costituzione . 
Si prefigura, con la chiamata diretta, una struttura governata dall’arbitrio e condannata al servilismo e all’adulazione; il contrario di quella scuola autonoma fondata sulla libertà d’insegnamento, libertà, si badi bene, fondamentale soprattutto per gli studenti.

Non è la buona scuola per la quale ho operato in 40 anni di servizio sul campo  e nella quale ho voluto farmi valutare.
                                                                                 
 La SCUOLA PUBBLICA NON ha paura di farsi  VALUTARE
http://donataalbiero.blogspot.it/2014/11/la-scuola-pubblica-italiana-non-ha.html

Donata Albiero    












RICORDI

 http://donataalbiero.blogspot.it/2013/03/una-scuola-amica-dei-ragazzi-media.html










giovedì 12 marzo 2015

IN CRISI I COMPITI A CASA

Compiti sì, compiti no   

Intervista doppia sui compiti a casa     http://youtu.be/2H2WLhamX18



Il dibattito sulla eterna questione dei compiti a casa, che ha animato  le mie discussioni con docenti e genitori per decenni ,  sta avendo una impennata, dopo  la pubblicazione a giugno 2014 del  Rapporto OCSE TALIS 2013 sui diversi sistemi internazionali di istruzione  (Focus sull' Italia).                                                     
Il sole 24 ore, tra le tante riviste e giornali sfogliati,  a dicembre 2014,   ha riassunto, secondo me,  in modo accurato  l’analisi riguardante il nostro Paese. L’identikit del tipico studente italiano prossimo al traguardo finale della scuola dell’obbligo non è entusiasmante: 15 anni sulle spalle, incline ad assenze e ritardi più di tanti coetanei stranieri, mediamente con risultati modesti o esigui nelle competenze alfanumeriche rispetto alla media dei 65 Paesi Ocse, ancorché con punte al di sopra della media nel nord del Paese. La scuola che frequenta è per lo più sottodotata in termini  di nuove tecnologie e laboratori nonché in termini di materiali per lo studio.  A casa sta chino sui libri per 8, 7 ore alla settimana, contro una media Ocse di circa 5. Eppure mediamente ottengono risultati scolastici sotto la media degli altri paesi europei.
 In particolare - ed è questo aspetto che mi ha sempre interessato come dirigente scolastica  - se si guarda alle fasce di utenza più deboli, rispetto ad adolescenti con situazioni domestiche più agiate o stabili, l’Ocse rileva divari rilevanti nel tempo dedicato allo studio a casa, con esiti negativi sul rendimento scolastico:“Molti ragazzi  che provengono da contesti socio-economici svantaggiati sono sfavoriti, perché per loro è più complesso trovare supporto in seno alla famiglia.
E qui la scuola può intervenire e aiutare questi ragazzi, fornendo sostegno dopo le ore scolastiche, anche se questo richiederebbe uno sforzo organizzativo e finanziario importante per garantire un servizio adeguato.”

 Tullio De Mauro,  autorevole linguista in un articolo su INTERNAZIONALE  intitolato Compiti a casa al tramonto? apparso  a gennaio 2015  afferma - 
  I compiti a casa sono stati un pilastro della venerata trimurti che ha retto negli ultimi due secoli l’insegnamento nelle scuole: lezione orale dell’insegnante, interrogazione dello studente per verificare che ripeta esattamente le parole dette dall’insegnante, e i compiti a casa per rafforzare la capacità di ripetere. Nella vita e nel lavoro il più e meglio s’impara interagendo con gli altri, cooperando e cercando di mandare a effetto quel che apprendiamo. Non così a scuola.
Turba l’idea che la classe si trasformi in laboratorio, luogo di apprendimento attivo e cooperativo, e l’insegnante fornisca non formule da ripetere, ma consigli e assistenza sul cammino autonomo degli apprendimenti.  Dove l’idea prende piede si avverte sempre meno la necessità dei compiti a casa 
Ora il rapporto Ocse dice che tra 2002 e 2012 in tutti i paesi decrescono in media da sei a cinque le ore settimanali dedicate dai quindicenni ai compiti a casa. Il pilastro vacilla. Tempo per i compiti e successo scolastico sono correlati per gli studenti dei ceti avvantaggiati. Invece i compiti accrescono lo svantaggio per gli altri. Soprattutto, il tempo per i compiti è un terzo della media Ocse in sistemi di alta efficienza – in Finlandia, Corea, Giappone – e tende invece al doppio in Italia e Russia” .
Oggi come ieri, si ripropone quella che è sempre stata  la battaglia  condotta a scuola,  come direttrice didattica   nelle elementari e preside  nelle medie .      La scuola,  mi riferisco nello specifico  a quella dell’obbligo,  continua, spesso, a dare compiti a casa,  infliggendo agli alunni e alle loro famiglie un onere anche molto gravoso, tanto più pesante quanto più lo studente sia disagiato, bisognoso, solo; quanto più la sua famiglia sia indigente e deprivata.
 
Già, perché i ragazzi che abbiano genitori premurosi e culturalmente attrezzati possono affrontare l'impegno domestico con serenità o minore insofferenza; ma per chi non trovi nelle figure parentali sostegno , e magari ne debba subire la latitanza o, peggio, l'ignoranza, le difficoltà poste dallo svolgimento degli stessi compiti assumono ben altra consistenza; la fatica, spesso  frustrante, è incomparabilmente più dolorosa.

Ho sempre cercato di spiegare  ai docenti  che non si dovevano valutare a scuola i ragazzi considerando i  compiti svolti a casa segno di impegno,  disciplina  o rispetto delle regole.  Il più delle volte , è stata per me una battaglia persa.  La libertà di insegnamento è propria del singolo docente. 
Tuttavia,  non ho mai rinunciato a far riflettere i consigli di classe sul paradosso di  premiare, di fatto,  gli studenti che non avevano problemi e quindi  svolgevano regolarmente i compiti loro assegnati.
Gli  studenti  invece con  problemi (personali e/o familiari, che della scuola avrebbero più bisogno di aiuto,  ascolto,  comprensione),  quasi sistematicamente non facevano i compiti, o li facevano male, indisponendo i docenti che per questo li redarguivano, infierendo con brutti voti, note, punendo, di fatto, il disagio, la sofferenza, emarginando tali ragazzi  dal "sistema" invece di dar loro l’ opportunità di affermazione.

Ho letto, quale rinforzo alle mie posizioni, il saggio scritto da Maurizio Parodi, dirigente scolastico "Basta compiti! Non è così che si impara" che si  oppone all'utilizzo dei compiti per casa e li considera come inefficaci e addirittura dannosi. Secondo l'autore , infatti, compito principale della scuola non è "punire" gli studenti oberandoli di lavoro anche fuori dalle aule, bensì insegnare il giusto metodo di studio per imparare con profitto e far emergere la personalità di ciascuno di loro.

Che dire ?   La mia  esperienza condotta  in  lunghi anni di osservazioni e confronto con docenti, mi spinge  a non   assumere una posizione univoca sulla necessità o inopportunità dei compiti a casa.                                                                                                          
Sia ben chiaro. 
I compiti sono importanti  per consolidare quanto studiato in classe.  La maggior parte delle conoscenze, infatti, si “fissa” attraverso l’esercizio. Essi  sono un’occasione anche per accrescere l’autodisciplina e l’autonomia dell’alunno, per imparare a darsi dei tempi, a seguire delle regole, per sviluppare il senso del dovere e l’abitudine al lavoro, una  prova in cui gli allievi devono misurarsi da soli.

Ma, è doveroso chiederci: di che età stiamo parlando? Quante ore si fanno a scuola prima di andare a casa?  Quali modalità di impegno a casa intendiamo: lavoro di ricerca, esercitazioni, lavori di gruppo che richiedono una parte per ciascuno, semplice studio mnemonico, ricostruzione degli appunti presi in classe e loro integrazione grazie a esplorazione su altri testi e su media, esercizi di problem solving, lavori di traduzione? 
 L’americana National Teatchers Association ha quantificato in una regola precisa i tempi di studio: 10 minuti di compiti in prima elementare, 20 in seconda, 30 in terza e così via al fine di adattare gradualmente il carico di lavoro alla crescita intellettuale dei ragazzi. Il tutto tenendo presente quali sono i tempi di attenzione dei bambini: un bambino di 6-7 anni comincia a distrarsi dopo 15 minuti, un ragazzo di 14 è in grado di prestare attenzione per circa 30-45 minuti.                                                             
Le scuole dovrebbero ben tenere presente queste regole anche nel loro orario scolastico (quanto produttiva è l’organizzazione scolastica con la settimana corta,  di  sei ore di lezione consecutive  al  giorno? )

E passiamo alla questione del giusto  carico:  significa oltre a tener conto dell’età dell’allievo  anche e soprattutto  compiti diversificati , non uguali per la classe , in rapporto cioè  ai ‘tempi’  di apprendimento dei vari alunni. 
Non è finita. La funzione dei compiti è legata al lavoro che si fa a scuola.
Per avere la massima efficacia devono in ogni caso  avere un feedback da parte degli insegnanti (che purtroppo non sempre li guardano). Così non solo viene riconosciuto un valore all’impegno richiesto, ma i docenti  hanno  modo di verificare eventuali difficoltà.

Vogliamo di più ?  Attraverso la didattica cooperativa, in classe , i compiti assegnati dovrebbero  essere discussi e corretti , bambini con bambini, ragazzi con ragazzi, confrontandosi , con la guida del docente, sulle  rispettive strategie per superare le difficoltà di chi non riesce. Se si chiedesse allo scolaro che meglio ha risolto un problema, ostico per altri, di spiegare ai compagni come è arrivato alla soluzione, la volta dopo tutti avrebbero uno strumento in più È il principio del mutuo insegnamento.
Non è facile essere educatore .
 Di certo, i compiti a casa  non sono  la bacchetta magica  da usarsi  per sopperire le carenze del lavoro in classe, qualsiasi giustificazione si voglia dare.

I nodi vengono al pettine  prima o poi ed è la scuola a dover dare le risposte, la “buona scuola”   


 Donata  Albiero

 

 

APPROFONDIMENTI

http://donataalbiero.blogspot.it/2015/02/un-contratto-sociale-scuola.html