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venerdì 9 marzo 2018

SE AI RAGAZZI INSEGNAMO LA DISEDUCAZIONE CIVICA


C’era una volta l’educazione civica 


Ero direttrice didattica quando appresi, correva l’anno scolastico 1990/91, della soppressione, per me inconcepibile, dell’ora di educazione civica nelle scuole medie e superiori.
Non fu l’effetto di una riforma della scuola statale, ma l’inizio penoso dei tagli finanziari al comparto scolastico che – fino al 1990 – poteva contare su una notevole fetta del bilancio nazionale, pari al 10,3% del totale della spesa pubblica.
Dall'anno scolastico 2010/11 si è passati al nome " Cittadinanza e costituzione", con due ore mensili affidate al professore di storia 
In teoria, l'insegnamento è presente per tutti gli istituti di ogni ordine e grado all'interno delle materie di storia e geografia. 
In pratica, tale disciplina, non considerata prioritaria, è sparita del tutto.

La sua cancellazione ha consentito di ridurre una parte della spesa economica ma nel contempo ha segnato l’inizio o/e l’accelerazione del processo di debellazione del senso civico in Italia.
“… Tutto ciò cui stiamo assistendo oggi, è anche frutto di questo diritto/ dovere negato agli italiani che, inconsapevoli ormai di un senso civico condiviso, non sono più in grado ormai da anni di avere netto in mente il senso del bene e del male, con la conseguenza aberrante che – la maggior parte della popolazione – non è più in grado di poter porre veti a metodi e azioni che proprio dalle istituzioni partono contro la popolazione stessa che non è stata così più in grado di essere consapevole di cosa sia concesso fare e cosa non lo sia. Rendendo possibile ogni misfatto.                            Chi conosce, chi ha cultura civica, sa come rispettare le regole per farle rispettare di conseguenza a proprio vantaggio. Creando così un vantaggio per tutta la comunità… (Emila Urso Anfuso).




Sia ben chiaro, però, la “diseducazione civica” che constatiamo dappertutto non è imputabile tout court al mancato insegnamento a scuola: troppo comodo pensarla così



Un bellissimo articolo di Benedetto Vertecchi, che condivido, intitolato  Se ai ragazzi insegnamo la diseducazione civica” ( per i puristi si deve scrivere "insegniamo") faceva nel 2013 il punto della situazione mettendo in correlazione scuola e società  
 Vertecchi allora si chiedeva se le condizioni politiche e sociali in cui la scuola operava fossero le più favorevoli a costituire uno sfondo di riferimento.

“Non si può ignorare, infatti, che l’educazione civica, anche più di quanto non avvenga per altri aspetti dell’educazione scolastica, rischia di produrre effetti controproducenti nel profilo di bambini e ragazzi se la proposta di cui è portatrice si presenta contraddittoria rispetto alla sua traduzione empirica, ovvero al modo in cui determinati principi sono concretamente attuati, o inattuati, nell’esperienza quotidiana.
In breve, non si può continuare a dire a bambini e ragazzi che la Repubblica è fondata sul lavoro, se poi non ci si preoccupa di superare le angosciose incertezze che segnano la condizione di vita di milioni di lavoratori o di giovani in cerca di occupazione.
 Non si può spargere moralità sociale se si consente che una parte consistente del reddito sfugga al prelievo fiscale.
Non si può affermare l’uguaglianza dei cittadini se le leggi non sono uguali per tutti, e ce ne sono di formulate per un uso personale.
Si potrebbe continuare, ma sarebbe inutile, perché si dovrebbe stilare un elenco noto a tutti.
(…)
Se l’intento dell’educazione civica è di creare una cultura comune di riferimento per ciò che riguarda i diritti e i doveri dei cittadini e le regole che disciplinano la vita sociale, bisogna prendere atto che tale intento non può che essere conseguito per l’effetto convergente dell’educazione formale assicurata dalla scuola (cui spetta di fornire gli elementi conoscitivi) e di quella informale, che si acquisisce attraverso le esperienze che si compiono, giorno dopo giorno, nelle famiglie, tramite le interazioni sociali, per effetto delle suggestioni esercitate dai sistemi di condizionamento prevalentemente attivi attraverso i mezzi per la comunicazione sociale.
La scissione tra i principi della convivenza (quelli espressi dalla Costituzione) e i valori empirici ossessivamente enfatizzati come segni della capacità di affermazione individuale rappresenta una manifestazione non marginale della crisi che il nostro Paese (ma non è il solo) sta attraversando. Quel che in Italia è più grave è un effetto di mitridatizzazione, che sta minando la capacità di stabilire un rapporto corretto tra le aspirazioni e i comportamenti individuali e quelli sociali.
C’è da chiedersi se, al momento, le proposte che la scuola rivolge attraverso l’educazione civica non siano percepite da bambini e ragazzi come una forma di ipocrisia. Certi principi possono apparire esibizioni esortative che la società adulta si guarda dall’accogliere. Un’educazione civica così praticata è un’offesa per la Costituzione: meglio sarebbe sospenderne l’insegnamento.

 L’alternativa a una simile amputazione consiste in un’assunzione collettiva di responsabilità: si può insegnare l’educazione civica se si contrasta la disoccupazione, se non si considerano furbi ma criminali gli evasori fiscali, se non si approvano (e neanche si propongono) leggi ad personam, se tutti fruiscono di un’istruzione di qualità elevata, se non si devasta il territorio e via seguitando.
La scuola può rendere sistematico l’apprendimento, ma i valori sui quali si fonda l’educazione civica non possono che costituire il riflesso delle scelte prevalenti nella società.”  e nella Politica, aggiungo io. 

Oggi imperversa, infatti,  l’arroganza di una classe politica che manovra la cosa pubblica come fosse roba sua. Amici, parenti, clienti, criminali, massoni, mafiosi, il concetto stesso di reato si dissolve in una fitta rete di relazioni e scambi di favori che si estende fino alle periferie della società. E anche quando    il reato c’è, e si vede, c’è sempre un cavillo, un precedente, un decreto ad personam, un testimone comprato, un avvocato fatto senatore, un deus ex-machina che in extremis salva l’imputato. Sempre che nel frattempo non sia già scattata la prescrizione si intende. 
Quali insegnamenti trasmette dunque la classe dirigente alla nostra comunità? Che tipo di esempio rappresentano per le nuove generazioni?

Esiste, di contro, per fortuna una grande 'popolazione' che insiste con pervicacia a educare i ragazzi,  a usare in famiglia e in pubblico un “per favore” un “grazie”, a distinguere il bene dal male, ad affrontare la vita e non a farsela regalare, a capire che ci sono delle regole di convivenza a cui attenersi, a rispettare gli altri.
  Solo da questa popolazione mi aspetto il cambiamento che la scuola, dal canto suo, saprà rafforzare, diffondendo la cultura civica contro i cattivi esempi.
Possono fare la differenza anche nell’essere cittadini attivi.  

Donata Albiero           9 marzo 2018


Puntualizzazione a quanti hanno corretto il titolo del post in "INSEGNIAMO"

Si scrive INSEGNIAMO o INSEGNAMO?
Ho riportato pari pari l'articolo di Vertecchi  "Se ai ragazzi insegnamo la diseducazione civica " senza permettermi il lusso di modificare un titolo non mio che non è nemmeno sbagliato

ACCADEMIA DELLA CRUSCA
Se questo fatto semplifica molte cose, pone però il piccolo problema di come si debba scrivere: sognamo, bagnamo o sogniamo, bagniamo? Premesso che è una questione di lana caprina, diciamo subito che — con buona pace dei grammatici pedanti — non si può considerare errore la grafia senza «i». Semmai la questione andrebbe spostata al problema della pronuncia: si deve «sentire» la «i» in parole come «bagnamo», «sognamo»? (Alcuni distinguongo: sí nel congiuntivo, no nell’indicativo.) Per diverse ragioni grammaticali, storiche, logiche ed etimologiche che non è il caso di sviscerare, considerati i pro e i contro si può concludere che andrà comunque bene. Si scriva pure: insegnamo o insegniamo, ecc. (S’attengano alla forma con «i» quelli che temono d’essere tacciati d’ignoranti. Preferiscano l’altra quelli che antepongono il buon senso alla paura.)